XXVI.

Giuseppe Parini

1. La vita

La vicenda vitale del Parini è caratterizzata da quelle qualità di saggezza, di equilibrio, di dignità senza enfasi e da quella tenace volontà di collaborazione al progresso e alle riforme civili, economiche, sociali della “patria” lombarda entro il generale movimento rinnovatore italiano ed europeo che, mentre pertengono al carattere morale dell’uomo, trovano chiaro accordo con la sua sostanziale fede illuministica nella natura benefica illuminata dalla ragione e dunque con le condizioni storiche e culturali del suo tempo e in particolare della Lombardia sotto il governo “illuminato” austriaco.

A quella cultura e a quel moto riformatore il Parini venne lentamente avvicinandosi e affiatandosi (con una sua personale visione e con una sua personale disposizione letteraria e poetica) durante la sua difficile e povera adolescenza e gioventú, piena di difficoltà economiche a causa della sua umile origine popolare. Infatti egli era nato a Bosisio, in Brianza, da Francesco Maria, modestissimo venditore di seta, e da Angela Maria Carpani il 23 maggio 1729, e sui dieci anni era passato a Milano in casa di una prozia, Anna Maria Lattuada, e aveva frequentato le scuole Arcimbolde, tenute dai Barnabiti, con iniziali scarsi progressi, dovuti sia alla sua salute assai gracile (aggravata intorno ai vent’anni da una forma di rachitismo che lo lasciò poi sempre debole di braccia e di gambe), sia alla povertà, per cui – alla morte, nel ’41, della zia e in base al suo testamento che faceva dipendere una misera pensione dalla professione sacerdotale – egli fu costretto, senza vera vocazione, a prendere gli ordini religiosi e a dividere il suo tempo fra gli studi, impartiti con metodi antiquati e pedanteschi, e un’affannosa ricerca di sopperire alla miseria della sua piccola pensione e alla situazione di povertà dei vecchi genitori, dando lezioni private o copiando carte forensi.

E tuttavia il giovane, avido di cultura e appassionato per la letteratura, trovò modo di arricchire l’istruzione insufficiente ricevuta nelle scuole Arcimbolde con proprie assidue letture dei classici antichi e italiani e con la frequentazione di amici che (specie quando nel ’52 egli poté pubblicare una sua raccolta di poesie, Le rime di Ripano Eupilino) gli aprirono le porte del mondo letterario milanese e lo fecero ammettere all’Accademia dei Trasformati. Si trattava di un’accademia che in un prevalente amore per la bella letteratura, era tutt’altro che insensibile alle nuove idee della cultura illuministica e associava il gusto della bella lingua cinquecentesca ad un esercizio di poesia in dialetto milanese, a favore del quale il giovane scrittore sostenne alcune polemiche (contro il Bandiera e contro il Branda, pedanteschi sostenitori di un toscanesimo affettato e dispregiatori del dialetto milanese) assai interessanti sia per la loro energia polemico-satirica, sia per una difesa non solo del dialetto, ma della cultura e della civiltà lombarda.

E se le persistenti difficoltà economiche costrinsero il Parini a diventare precettore dei figli dei duchi Serbelloni (dal ’54 al ’62) e a soffrire una condizione di subordinazione assai umiliante, egli poté pure trarre dalla sua permanenza in quella casa aristocratica motivi di osservazione diretta della vita brillante, fastosa e frivola della nobiltà milanese e insieme incontrarvi persone colte e aperte alla nuova cultura, e poté maturare cosí – fra esperienza di uomini e letture delle nuove opere illuministiche specie francesi – una coscienza e una visione della cultura e della letteratura sempre piú moderna e affiatata con le stesse direttive riformatrici del governo austriaco in Lombardia, vòlte (per opera del ministro viennese Kaunitz e del governatore di Milano Firmian) a rompere la triste eredità della dominazione spagnola, a limitare o abolire i vecchi privilegi feudali, a promuovere ardite riforme agrarie e tutta una nuova educazione necessaria a sostenere un nuovo ordine di apertura progressista e di piú intensa vita sociale e civile.

Proprio in questo periodo – come poi meglio vedremo – il Parini si fece ardito sostenitore delle nuove idee umanitarie, egualitarie, civili, sia con il Dialogo sopra la nobiltà (1753), sia con le prime Odi e altri scritti polemici in versi e in prosa, sia con l’avviamento del Giorno, le cui due prime parti (Mattino e Mezzogiorno) vennero pubblicate nel 1763 e nel 1765, quando già il Parini aveva lasciato – con un gesto di protesta contro la prepotenza della duchessa che aveva schiaffeggiato la figlia del maestro di musica Sammartini – la casa Serbelloni per passare ancora alcuni anni presso gli Imbonati e poi definitivamente interrompere l’attività di precettore, trovando protezione e impiego da parte del governatore di Milano, conte Firmian.

Questi in un primo tempo gli affidò la redazione della ufficiale “Gazzetta di Milano” (dove il Parini scrisse articoli tutti ispirati al nuovo spirito illuministico e alle riforme necessarie all’“utilità pubblica” della Lombardia), poi, nel ’69, lo nominò professore di «belle lettere» nelle scuole Palatine, trasportate nel ’73 nel palazzo di Brera. Qui il Parini svolse una importantissima attività di educatore sia come professore sia anche (dopo momenti di maggiore incertezza circa la sua posizione pubblica nel periodo successivo alla morte di Maria Teresa e del conte Firmian e negli inizi del governo di Giuseppe II, le cui riforme ardite, ma spesso precipitose, suscitarono alcuni dissensi del poeta) come soprintendente superiore alle scuole pubbliche di Brera.

Cosí il Parini diveniva sempre piú un personaggio essenziale nella vita culturale e civile di Milano e realizzava una condizione di maggiore – anche se sempre assai modesto –, agio, confortato dall’amicizia devota di giovani nobili da lui educati (e debitori a lui di una diversa concezione e attuazione della loro condizione nobiliare piú inserita e attiva nella vita economica, civile e culturale della Lombardia) e da quella di colte gentildonne che permetteva al vecchio poeta un esercizio di tenera galanteria e di calore affettuoso cosí vivo poeticamente in alcune delle sue odi piú tarde. Ma tale condizione di equilibrio e di saggezza, riscaldata da affetti e dalla coscienza di aver contribuito con la sua attività educativa e con la sua opera poetica ad uno sviluppo di progresso nella sua amata e mai lasciata città di Milano, non mancò di venature piú tristi, dovute alla cattiva salute, alle ristrettezze economiche mai interamente superate, a nuovi dissensi con il governo austriaco che, sotto Leopoldo II, era divenuto piú cauto e sospettoso, quanto piú si diffondevano anche in Lombardia le nuove idealità rivoluzionarie e la nuova repubblica francese si dimostrava aggressiva e capace di passare all’attacco contro gli stati conservatori europei: sicché anche riformisti moderati come il Parini potevano apparire pericolosi e persino apparire come possibili “giacobini”.

E certo quando, nel maggio del ’96, l’armata di Napoleone occupò Milano, il Parini non negò la sua collaborazione alla nuova Municipalità milanese e alla democratica Società di Pubblica Istruzione, anche se la sua posizione di moderato, la sua intransigenza morale, il suo sdegno per certa sopraffazione dei rappresentanti francesi sulla indipendenza e sugli interessi della sua città e della nuova repubblica Cisalpina resero assai difficile la sua permanenza nella Municipalità. Tuttavia ancora nel ’98-99 egli accettò – destituito dalla sua carica – di dirigere una commissione che doveva decidere sulle memorie presentate ad un concorso per l’organizzazione dei teatri nazionali dicendo: «Sarò sempre pronto ad impiegare in vantaggio della patria fino alle ultime reliquie de’ miei sensi e della mia salute».

E la sua difficoltà di fondo, fra simpatia e avversione per il nuovo ordine repubblicano (simpatia per l’attuazione piú piena dei suoi ideali di progresso e di libertà civile, avversione per il suo carattere estremistico e per la sproporzione fra le idee e le attuazioni viziate dal carattere ibrido di una repubblica sostenuta e dominata dalle armi francesi), si rivelò ancora quando, rientrati a Milano gli austriaci nell’aprile del ’99, il Parini, sempre piú gravemente ammalato e angustiato dalla sua difficilissima situazione, volle esprimere i suoi sentimenti in un sonetto che esaltava la fine del dominio francese e delle sue spoliazioni e sopraffazioni, ma insieme severamente ammoniva il governo austriaco restaurato a «far splendere la giustizia e il retto esempio», facendo cosí implicitamente ricadere la colpa dei successivi sconvolgimenti sulla incompiutezza delle riforme di cui pure lo stato austriaco era stato a suo tempo promotore. Lo stesso giorno in cui compose quel sonetto il poeta si spegneva nella sua abitazione nel palazzo di Brera e veniva sepolto nel cimitero di Porta Comasina con funerali semplicissimi, come egli aveva voluto nel suo testamento: «Voglio, ordino e comando che le spese funebri mi siano fatte nel piú semplice e mero necessario, e all’uso che si costuma per il piú infimo dei cittadini».

2. Parini e l’illuminismo

Le parole ora citate del suo testamento ben suggellano una vita intesa come esercizio di virtú personali al servizio della pubblica utilità, del pubblico e civile progresso della comunità e della concreta città, Milano, alle cui sorti di crescente civiltà piú degna e umana il Parini legò strettamente la sua attività e di educatore e di poeta-educatore, animato da un persuaso e virile amore per gli uomini nella loro comune dignità e nei loro comuni diritti e doveri civili e sociali, nel loro dovere di collaborare all’elevazione dei piú umili strati sociali, a cui egli nel momento della morte volle cosí significativamente ricongiungersi nella richiesta di un funerale semplicissimo come «si costuma per il piú infimo dei cittadini».

Perciò è anzitutto essenziale per comprendere la sua opera di poeta – raffinato e dotato di un’estrema coscienza artistica, rafforzata dal culto dei classici e da acute meditazioni estetiche, ma mai privo di una destinazione educativa e civile della propria poesia –, chiarire la sua posizione di uomo e di scrittore contraddistinta da una salda moralità e dignità, da una misura e da una saggezza sobria e convinta, fortemente ispirata da una persuasione nel progresso ordinato e graduale della società umana in forza dei valori illuministici di verità, di utilità umanitaria, di assidua collaborazione fra natura e ragione, fra istinti schietti e naturali e ragione illuminatrice e ordinatrice di quelli per sottrarli al disordine delle passioni egoistiche e viziose e portarli alla luce di una virtú, mai chiusa in se stessa, ma aperta al bene degli altri e della società.

Sicché la stessa sua interpretazione del cristianesimo (di cui il Parini fu sacerdote piú che nella sua professione poco congeniale, ma dignitosamente accettata di prete, nella sua confermata adesione ai valori evangelici piú essenziali) è in realtà coerentemente adeguata al suo sostanziale e profondo spirito illuministico che fonde, nel suo utilitarismo umanitario e filantropico e nella sua tensione egualitaria, gli aspetti della carità e dell’amore cristiani, mentre energicamente scarta ogni elemento superstizioso, intollerante e mistico della religione tradizionale e combatte decisamente ogni pretesa mondana della Chiesa, ogni sua sopraffazione prepotente delle libere coscienze e dei diritti del potere politico-civile. Come potrebbe essere largamente dimostrato da molti scritti pariniani che collegano la decadenza italiana al congiunto soffocamento della libertà da parte del dominio spagnolo e della Controriforma cattolica, o esaltano la soppressione dell’ordine dei gesuiti, o confortano l’istituzione di scuole e università pubbliche sottratte alla direzione e al controllo degli ecclesiastici ostili al progresso della ragione e paurosi che «le verità filosofiche debbano recar pregiudizio alle verità della fede», o propongono come esempi di vera santità santi preoccupati solo di alleviare le pene degli umili a qualunque razza o fede appartengano, o esprimono una indignazione rovente per la sopravvivenza della inquisizione spagnola e dipingono dolorosamente la scena degli eretici condotti al rogo dietro il crocifisso (immagine di colui che volle il proprio martirio per salvare tutti gli uomini), o severamente condannano le guerre di religione in cui il fanatismo credette Dio cosí ingiusto da spingere al reciproco sterminio uomini fra di loro «fratelli».

Cosí l’illuminismo del Parini può arricchirsi di elementi cristiani nel senso soprattutto dell’amore fraterno di tutti gli uomini e insieme rifiutare ogni ascetismo, ogni spirito di rinuncia degli essenziali beni della vita che egli profondamente ama nella sua fecondità e attiva laboriosità, nelle sue gioie schiette e virtuose, nelle sue feste e nei suoi nuovi eroi: che non sono piú i guerrieri sanguinari e i sovrani prepotenti e conquistatori, ma (come soprattutto si può vedere da molte delle sue Odi) i magistrati giusti e piú diretti a prevenire che a punire i delitti motivati molto spesso dal bisogno e dalla miseria, gli scopritori e diffusori di nuovi procedimenti medici capaci di salvare tante vite umane, l’educatore che alleva nuove generazioni all’amore civile e all’esercizio delle virtú cittadine e umane o magari anche la prima giovane donna che si laurea in legge rompendo il pregiudizio dell’inferiorità intellettuale delle donne e iniziando cosí la loro partecipazione piú attiva alla vita e al progresso umano.

Da tutto ciò nasce un ottimismo fiducioso e virile, una saggezza tutt’altro che sterile ed egoistica, una salda volontà di riforme (soprattutto concretamente appoggiate e stimolate nella città e nella regione in cui il Parini visse e operò) che progressivamente debbono far trionfare la ragione illuminata e la “pubblica felicità”, superando pregiudizi inveterati e condizioni economiche e sociali arretrate e ingiuste. Parini fu infatti un riformatore e non un rivoluzionario, timoroso e scettico delle trasformazioni improvvise e violente, e fiducioso invece in un’azione lenta, cauta, ma sicura delle sue mète finali.

E se questo può essere un limite della sua posizione ideologica entro una prospettiva larga del Settecento illuministico capace anche di tensioni piú ardite e rivoluzionarie, non può neppure negarsi che tale posizione moderata, ma progressiva, ben s’inquadra nelle condizioni della Lombardia austriaca e del movimento riformatore che in essa trovava felici accordi fra intellettuali come il Parini e governanti come il Firmian e il Kaunitz, in una direzione riformatrice che è del resto largamente attiva in vaste zone dell’illuminismo (e del suo ideale di riforme ad opera dei monarchi assoluti-illuminati e di cerchie di intellettuali) e che, d’altra parte, ben coincide con la misura umana e persino poetica del Parini. Le quali non mancano certo di una essenziale forza di impegno e di sdegno morale e civile (piú apertamente aggressiva e satirica, come vedremo, nelle prime odi e nelle prime parti del Giorno, piú pacata, ma mai spenta nelle ultime odi senili), ma che, nella prospettiva di un ideale illuministico educativo e piú riformatore che eversivo, si colorano di una raffinata e crescente finezza artistica classicistica e poi piú pienamente neoclassica, di un gusto di equilibrio e di misura che, mentre attenuano la crudezza di una poesia di battaglia e propaganda, suggellano di nobiltà espressiva eletta una poesia destinata pur sempre ad un pubblico di alta cultura e di forte preparazione letteraria.

Condizioni e qualità della sua natura e della sua poesia che possono verificarsi anche nei numerosi scritti pariniani critici ed estetici (specie il lungo e meditato trattato De’ principi generali e particolari delle belle lettere, che raccoglie le lezioni tenute a Brera fra il 1773 e il 1775), in cui lo scrittore propone un tipo di poesia saldamente legata alla freschezza e schiettezza delle sensazioni (secondo i principii del sensismo) e destinata ad un’opera di alto didascalismo, di collaborazione al progresso della “pubblica felicità”, ma contraddistinto, nel suo incontro di “utile” e “dilettevole”, da una lingua eletta e appoggiata sui grandi esemplari della lingua letteraria della piú alta tradizione italiana e da una raffinata tecnica e da un “buongusto” che si avvale della “bella imitazione”, mai pedantesca e passiva, ma pur raffinata e squisita, dei classici latini e greci.

Sicché il classicismo (pur con varie utilizzazioni fino al piú tardo neoclassicismo dell’ultimo Parini) rimane una costante essenziale della poesia pariniana sostenendone una modernità e capacità di intervento nella storia e nella civiltà del proprio tempo, ma sempre ad un livello artistico alto, eletto, elaboratissimo, sino a provocare nel giovane Leopardi, pur ammiratore della figura morale e della coscienza letteraria del Parini, l’impressione di un’arte poco ricca di “passione” e di “sentimento”.

Giudizio non interamente giusto, ma pur significativo ad indicare come la particolare forza di sentimento del Parini si immetta e si realizzi entro una misura elegantissima, entro una volontà di equilibrio saggio, che agevola lo sgorgo di una poesia virile, sostanziosa, ricca di esperienza reale e mai oziosamente decorativa, ma temperata e, tendenzialmente o effettivamente, armonica e dominata da ideali etici ed estetici di saggezza e di misura, piú che di espressività impetuosa e immediata, specie nella meta finale del suo lungo e complesso svolgimento.

3. Il noviziato pariniano e le prime «Odi»

La prima formazione del Parini poeta si svolge in una zona ancora arcadica, ma con una piú forte ripresa dei modelli rinascimentali e dei classici latini e greci e con una piú originale carica realistica e morale che parzialmente si rivela entro condizioni di esercizio stilistico preparatorio, di assaggio di diverse forme di linguaggio poetico e di generi poetici (poesie pastorali, satire bernesche ecc.), nella raccolta giovanile del ’52, Le Rime di Ripano Eupilino (pseudonimo e anagramma del Parini nato nei pressi del lago di Pusiano, classicamente Eupili).

Ma ben presto le nuove esperienze umane e culturali, la frequentazione dell’Accademia dei Trasformati, le nuove letture di testi fondamentali dell’illuminismo europeo, stimolano il Parini a superare quella prima fase piú strettamente letteraria e legata all’Arcadia, e a maturare (anche nelle ricordate polemiche linguistiche contro il Bandiera e il Branda, piene di implicazioni morali, letterarie e civili) una sua nuova prospettiva di letterato e di poeta che, mentre svolge e approfondisce gli elementi classicistici del suo noviziato stilistico, li collega con persuasi motivi della sua nuova fede civile e morale accesa nell’incontro con la cultura illuministica.

Ed ecco che – accanto a componimenti poetici recitati nell’Accademia dei Trasformati e volti ad esaltare l’avversione per le guerre di conquista empie e sterminatrici, per il fanatismo religioso, e la sua adesione ai temi illuministici dell’umanitarismo e dell’eguaglianza naturale di tutti gli uomini – il Parini stende in prosa, nel ’57, quel Dialogo sopra la nobiltà che piú direttamente e accesamente rappresenta la prima impostazione della sua polemica contro la boria della classe nobiliare, che viene smontata e rivelata nelle sue stesse origini di violenza, di sopruso, di appropriazione prepotente di beni e privilegi, nel dialogo, entro la comune tomba (dove tutti ritornano eguali con la sola differenza che chi «piú grasso ci giugne, cosí anco piú vermi sel mangiano»), fra un nobile orgoglioso della sua vita oziosa e sfruttatrice e un poeta plebeo che dimostra al primo, con spietata analisi, la sostanziale eguaglianza degli uomini, la vanità del suo orgoglio, la piú vera nobiltà di chi vive per il bene di tutti, concedendo solo (ed è uno spunto importante per la successiva polemica e rieducazione dei nobili nello svolgimento del Giorno) un pregio a quella nobiltà che sappia adoperare la propria potenza e ricchezza per il bene pubblico.

Quel “poeta plebeo” è il portavoce del Parini, poeta di origine popolare, che in questi anni, mentre in un Discorso sopra la poesia sostiene e l’idea di una poesia educatrice e capace di giovare dilettando ed eccitando gli animi ad azioni virtuose e benefiche, viene, con pacato e sicuro fervore illuministico, ad attuare nelle prime Odi quel suo ideale di poesia ribadito e compendiato nel finale di una delle prime di quelle, la Salubrità dell’aria (1759):

Va per negletta via

ognor l’util cercando

la calda fantasia

che sol felice è quando

l’util unir può al vanto

di lusinghevol canto.

Dove la «negletta via» è un chiaro accenno polemico alla poesia arcadica dalla quale dunque il Parini si distacca consapevolmente e che egli rivede nel suo aspetto di evasione e di disimpegno dalla realtà e dove la poesia nuova risulta utile quando piú adopera i suoi mezzi «lusinghevoli», la sua amabile bellezza melodica, la sua «calda fantasia». E dunque la poesia cui aspira il Parini non sarà una frigida lezione in versi non ispirati, ma una vera nuova poesia ispirata, calda di sentimenti e di sensazioni vive, dotata di musicalità e tanto piú perciò capace di intervenire con forza nella situazione civile e storica promovendo e diffondendo idee e azioni utili al bene di tutti, al progresso della società. Cosí il vecchio precetto oraziano («omne tulit punctum / qui miscuit utile dulci») è ripreso in una specie di alta tradizione del piú vero classicismo, ma effettivamente rinnovato dal nuovo impegno illuministico, dalla pregnanza e tensione di nuovi riferimenti ideologici, estetici e civili, che arricchiscono il programma riformatore della stessa poesia.

Tutte le prime odi ben confermano la fedeltà persuasa del nuovo poeta in quel programma e nella sua attuazione, anzitutto rivelata dai temi di quei componimenti, singolarmente rinnovati anche quando hanno un’apparente vicinanza con temi arcadici: il caso della Vita rustica, che tanto si diversifica da simili temi idillici e pastorali arcadici per il diversissimo senso dell’elogio commosso del «villan sollecito» (che, con le nuove conoscenze di coltivazione della terra, renderà piú fecondi i suoi campi contribuendo alla prosperità comune e che cosí diventa degno di immortalità poetica) e per la stessa esaltazione autobiografica del poeta, povero perché non servile o adulatore dei potenti, e lieto di tale sua condizione adatta ad una nuova e libera poesia. Ma tanto piú esplicitamente nuovi sono temi come quelli della già citata Salubrità dell’aria che esalta la salubre aria della campagna di fronte a quella di Milano inquinata dai miasmi delle paludi improduttive che la circondano e dalle «vaganti latrine» con cui ancora si procedeva allo sgombero degli escrementi umani e chiede cosí nuovi provvedimenti igienici per una vita piú sana e decorosa dei cittadini. Con spregiudicato ardire il nuovo poeta illuminista non teme la prosaicità di un simile tema che egli insieme evidenzia nel suo realismo sensoriale e nobilita con la concisione classica del lessico e dell’aggettivazione perspicua, con la misura efficace ed elegante delle strofe e del ritmo. O saranno il tema dell’Impostura, che illuministicamente associa agli impostori del tempo i falsi profeti di civiltà fondate sulla superstizione e sull’inganno, il tema della Musica, che condanna l’uso delle “voci bianche” ottenute con l’evirazione di fanciulli destinati a cantare in vesti femminili, il tema dell’Innesto del vaiuolo, che loda l’inventore e l’introduttore in Italia del vaccino antivaioloso, il tema del Bisogno, che esalta il giudice che applica i nuovi principi del metodo preventivo, il tema dell’Educazione (scritta per il suo allievo Carlo Imbonati) che sviluppa piú ampiamente l’ideale educativo pariniano alla luce della sua persuasa fiducia nella unione sapiente di natura e ragione, nel rifiuto di ogni coercizione e di ogni vecchio pregiudizio.

Cosí queste Odi (e poi altre come La magistratura o La laurea) sono altrettante realizzazioni della poesia «utile e dolce», della poesia collaboratrice attiva delle riforme che devono portare ad una civiltà sana, pacifica, attiva, sobria e felice nel bene inseparabile dei singoli e della collettività, nel suo lavoro fecondo e nelle sue feste serene, nella sua lieta fruizione di beni duraturi e non viziosi. E coerentemente sono altrettante battaglie poetiche contro ogni deformazione del saldo vincolo di Natura e Ragione, di Piacere e Virtú, contro ogni resistenza di pregiudizi e di interessi egoistici e di casta. Né, come dicevo, si tratta di rozze composizioni propagandistiche, ché il Parini assiduamente vi cerca una nobilitazione poetica con il suo classicismo perspicuo ed elegante, teso a rendere evidenti, efficaci e concise le rappresentazioni dei suoi temi illuministici e civili.

E tuttavia (con diversi esiti di migliore resa poetica, come può essere soprattutto quella dell’Educazione) in questa posizione vi erano delle effettive difficoltà di realizzazione poetica, degli effettivi rischi di caduta in certa durezza piú prosastica o in certa discorsività meno sensibilizzata fantasticamente, un generale limite di prevalenza dell’efficacia educativa sulla bellezza poetica cui pure tanto il Parini teneva. Sicché in mezzo allo sviluppo di questa direzione piú esplicitamente e aggressivamente illuministica nelle Odi del primo periodo, il Parini venne volgendosi ad una poesia piú complessa, in cui l’impegno rinnovatore e riformatore potesse calarsi ed esprimersi in una rappresentazione e descrizione ironico-satirica, con un impasto piú vario e poetico di toni e di gradazioni fra esaltazione di nuove virtú, sdegno, ironia e sorriso sul mondo satiricamente rappresentato, incontro di forza e di morbidezza, di eleganza evidente e di sfumature preziose e raffinate.

4. Il «Giorno»

Tale nuova poesia si realizza nel Giorno, le cui due prime parti uscirono, come già dissi, nel ’63-65, mentre la terza parte (inizialmente pensata come ultima) rimase a lungo interrotta e fu ripresa piú tardi insieme alla quarta (e ad una revisione delle prime due parti), rimanendo ambedue inedite durante la vita del Parini, in un lunghissimo lavoro che si intreccia a quello delle Odi, sia quelle di cui abbiamo già parlato sia quelle di cui parleremo come caratteristiche dell’ultimo svolgimento del gusto e della poesia pariniana in direzione piú decisamente neoclassica.

Certo è che l’impegno piú alacre e continuo del poeta nel Giorno corrisponde alla piú rapida realizzazione dei due primi poemetti: il Mattino e il Mezzogiorno, al piú deciso ed energico impianto, in quei due poemetti, di un poema didascalico-satirico che il Parini concepisce come una battaglia ideologica e riformatrice, da realizzare con la poesia e nella poesia, come un intervento nella situazione della Lombardia del suo tempo, Una battaglia e un intervento capaci di sollecitare – al di là delle prime riforme già realizzate ad opera del governo austriaco e col concorso dei gruppi intellettuali avanzati – una piú vasta serie di riforme, rivolte a ridurre i privilegi e gli abusi persistenti di quella classe nobiliare che egli – educatore e riformista – non mirava tanto a distruggere quanto a “riformare” e a portare ad una funzione civile e laboriosa, coerentemente al suo ideale di una società armonica e attiva, accomunata, pur nelle sue varie componenti sociali, da un’unica preoccupazione di progresso, di “bene pubblico”, di valorizzazione del lavoro. E di questi valori davano già prova proprio quegli strati sociali piú umili e sani (artigiani e contadini) cosí ancora sottoposti ad una ingiusta e arretrata struttura sociale e allo sfruttamento da parte della classe nobiliare parassitaria, oziosa, viziosa e disumana nella sua prepotenza, nella sua certezza dei propri diritti superiori e nella sua ignoranza o frivola e dilettantesca cultura. In questa prospettiva di riformismo combattivo saldamente legato ai grandi motivi illuministici dell’eguaglianza naturale degli uomini, dell’umanitarismo attivo e del rifiuto di ogni persistente privilegio di origine feudale, il Parini puntò centralmente sul capovolgimento di una impostazione pedagogica diretta in una pedagogia satirica, ironica e parodistica dell’«amabil rito», della «dolce vita» della nobiltà e di un poema illustratore delle «gesta» antieroiche e meschine di un «giovin signore» (personaggio rappresentativo di tutta la sua classe), minutamente seguito nelle parti della sua giornata di cui cosí si svela appieno la squallida e ripugnante realtà di ozio, di occupazioni frivole, sciocche, egoistiche e prepotenti, realtà tanto piú lumeggiata nel controluce della esaltazione ironico-parodistica (e nel fondo severamente satirica), nella rappresentazione pseudo-eroica della sua nullità e nel contrasto con due diverse rappresentazioni. Da una parte quella di un’antica nobiltà, tutt’altro che amata dal poeta nelle sue origini di violenza e di usurpazione, ma riscattata almeno (rispetto al «giovin signore» che «da tutti servito a nulla serve») da una sua rude energia, dal suo coraggio bellicoso, da una sua funzione comunque attiva quando forniva funzionari capaci, attivi collaboratori di governi. Dall’altra quella – tanto piú vagheggiata ed esaltata dal poeta – della vita sana e laboriosa del popolo, che solo l’ingiusta struttura sociale può degradare nella miserevole condizione di mendicanti o di servi e che direttamente rivela quelle doti di serio esercizio della vita, di saldi affetti familiari, di schiettezza naturale.

Nella rappresentazione di questo contrasto e nella rappresentazione e descrizione della giornata del «giovin signore» il Parini dispiega una complessa varietà di toni e di procedimenti poetici nell’arduo impegno di vincere la monotonia (non del tutto effettivamente vinta) di questo ritratto di nullità intellettuale e morale, di questa ripugnante larva d’uomo nella serie delle sue occupazioni inutili e vuote, del suo cerimoniale fisso e rigido delle varie ore della sua giornata: il tardo e pigro risveglio dopo una notte di bagordi, la colazione, la complicata vestizione e toletta, la visita alla dama di cui è “cavalier servente”, il pranzo e poi la passeggiata in carrozza, e insomma tutte le sue prestazioni soffuse di tedio e insieme contraddistinte dalla loro assoluta inutilità e dal loro ammanto di sfarzo lussuoso, di frivola ricercatezza, di adeguazione alla “moda”. E la moda appare come la vera regina di questo mondo brillante e fatuo, che usufruisce cosí anche, in modo stravolto e frivolo, della stessa nuova cultura illuministica degradandola e deformandola a incentivo alla svalutazione libertina, edonistica e cinica, dei vecchi valori di onestà, di pudore, di fedeltà coniugale, di laboriosità e di coraggio. Di questo mondo vuoto e pur innegabilmente elegante e circondato di oggetti preziosi e raffinati (di cui il Parini poteva sentire la repulsione morale e insieme l’attrazione estetica) il poeta descrive le parvenze oggettive (interni, oggetti, azioni) con ammirevole abilità artistica e con l’ausilio di una tecnica raffinata e confortata dal suo gusto di perspicuità classicistica, di evidenza sensibile, di sfumatura lieve ed elegante, in cui confluiscono la sua maturata educazione classicistica, la sua fondamentale adesione al sensismo, la sua consonanza con il gusto figurativo rococò.

Tutto è sotteso dal fondamentale motivo satirico e dal suo riferimento ad una didascalica battaglia poetica che ha i suoi saldi centri nei valori positivi che il Parini contrappone a quel mondo corrotto e inutile. Ma, ripeto, sotto quella spinta fondamentale la poesia pariniana si modula in toni complessi e con una capacità eccezionale (e qualche volta sin eccessiva per raffinata e quasi stucchevole precisione, elegante e sensibile) di rappresentazione evidente e preziosa di scene, di ambienti, di azioni, con una linea e un ritmo sinuosi e morbidi, fluidi e frizzanti, con un gusto di sensazioni vivaci, rapprese in un linguaggio classicistico-sensistico di impareggiabile finezza ed evidenza, in un uso eccellente dell’endecasillabo sciolto nelle sue possibilità di scioltezza, di pieghevolezza, di aderenza, di sollecitazione ritmica della rappresentazione, del rilievo pungente e ironico, dell’elegante e nobile misura attuata con infiniti accorgimenti stilistici: l’inversione, la ripetizione a distanza di parole tematiche, la spezzatura e la continuazione del discorso poetico da verso a verso per mezzo dell’«arcatura», il rallentamento e l’accelerazione del ritmo in funzione dei vari toni di ironica e parodistica solennità, di incanto elegante dei begli oggetti descritti, di satira, ora sorridente, sommessa e flautata, ora indignata e apertamente polemica.

Ne risultano scene settecentesche di suprema eleganza, macchiette e caricature sorridenti e satiriche, descrizioni minute e impeccabili di oggetti o di azioni còlte e rese nel loro vivo e mobile dispiegarsi, aperture ariose e realistiche sulla campagna fertile e sul mondo popolare laborioso e schietto. Ma certo il culmine della poesia pariniana, quale si esprime specie nei due primi poemetti, viene raggiunta quando dal loro tessuto vario, dalla generale tensione poetica cosí sfaccettata nelle sue rappresentazioni ironiche, satiriche, parodistiche, polemiche, descrittive, si alzano alcuni episodi esemplari che esprimono piú direttamente l’animo indignato e offeso del poeta illuministico, pur facendolo, con tanto maggior risonanza, esplodere al sommo di una rappresentazione morbida ed elegante, dall’interno di un episodio inizialmente costruito con tutte le risorse della sua elegante ironia e della sua rappresentazione preziosa e satirica del mondo nobiliare.

Sarà il caso della favola del piacere (che ribadisce saldamente l’origine egualitaria degli uomini, la comune natura dei loro istinti e bisogni, che dalla fuga del dolore li condusse al desiderio del piacere, di contro all’idea di una necessaria distinzione in due classi, quella destinata ai piaceri piú preziosi e quella rimasta ad una sensibilità rozza ed elementare), che dal suo inizio flautato, e attraverso una morbida ironica satira, sale alla indignata designazione della «spregiata plebe» condannata alla fatica e alla legge del bisogno.

O sarà il caso del finale del Mattino in cui, dalla rappresentazione lucida e ironica della uscita del «giovin signore» in carrozza, dopo i laboriosi preparativi della sua toletta, si sale senza sforzo al quadro allucinante del plebeo investito dalla carrozza signorile che prosegue la sua corsa lasciando nella strada la lunga striscia di quell’«impuro sangue». O ancora quello, sempre nel Mattino, del passo in cui dalla descrizione della colazione del «giovin signore» e delle bevande offerte al suo svogliato appetito si sale alla espressione indignata dell’umanitarismo pariniano nei confronti della spietata, feroce conquista spagnola dell’America centrale e meridionale (quando «Cortes e Pizzarro umano sangue / non istimar quel ch’oltre l’Oceàno / scorrea le umane membra») giustificata con amarissima ironia per aver permesso l’introduzione del caffè e del cioccolato in Europa e quindi per la maggior delizia del «giovin signore».

O infine sarà il grande episodio della «vergine cuccia», in cui tutte le qualità e risorse della poesia del Giorno entrano in azione e servono mirabilmente ad un crescendo poetico che culmina in note severe e dolenti, in una indignazione inequivoca e pur essa stessa tradotta in una rappresentazione di altissima misura.

Al centro della scena del pranzo del Mezzogiorno, che rappresenta la frivolezza, il volgare e superficiale snobismo, la perversione di una cultura alla “moda”, come è quella del vegetariano che deplora, parodiando modelli di alta deprecazione classica, l’uccisione della «innocente agnella» (moda di una sensibilità pietosa per gli animali come alibi di una spietata insensibilità per gli uomini), scatta l’intenerimento e il pianto della damina che ricorda l’offesa patita dalla sua cagnolina da parte di un servo da quella morso, e la rappresentazione di quel ricordo: prima l’avvio languido e sospiroso della dama, la descrizione del “delitto” del servo tutta alleggerita e approfondita insieme dal tono sacro-ironico, epico-parodistico in forme di ironica nobilitazione classicistica e di elegante evidenza sensoriale («de le Grazie alunna», «sacrilego piè», «tre volte rotolò, tre volte scosse», «e da le molli nari soffiò la polvere rodente»), poi l’aprirsi della scena sullo sfondo del palazzo nobiliare attraverso il diffondersi del guaito della cagnolina colpita fino alle «aurate volte» e il doppio movimento trepidante e impaurito dei «mesti servi» e delle «damigelle pallide, tremanti» che scendono e salgono dai piani superiori e inferiori e accorrono intorno alla damina svenuta. Infine il convertirsi di questo falso dramma nel vero dramma del servo spietatamente espulso e gettato con la sua «squallida prole» sul lastrico «vittima umana» dell’«idol placato» della cagnolina offesa. Tutto vi è guidato e misurato dalla mano di un artista espertissimo che lavora sulla densa tensione di un generoso ed energico sdegno umanitario, assicurandone la graduata e crescente espressione con i colori eleganti, evidenti, sfumati della sua complessa tavolozza, con le risonanze ironiche e dolenti del suo orecchio finissimo, al culmine di una poesia in cui si fondono le risorse del linguaggio classicistico-sensistico e del fluido disegno rococò. Mattino e Mezzogiorno nella loro redazione pubblicata nel ’63-65 ben rappresentano questa fase dell’arte matura del Parini, e se nelle due parti successivamente composte e mai definitivamente compiute (Vespro e Notte) la centrale ispirazione del Giorno sostanzialmente permane, essa appare in quelle nuove parti meno aggressiva e d’altra parte piú intonata a quel gusto piú decisamente neoclassico che vedremo configurato ancor piú direttamente nelle Odi piú tarde.

Nell’evoluzione della sua storia e della storia del tempo il Parini poté aver l’impressione di aver già fortemente collaborato con i suoi due primi poemetti del Giorno ad una riforma della classe nobiliare, sicché la sua volontà satirica sembra piú spesso alleggerita e piú dominata da uno sguardo superiore e pacato cui corrispondeva quella maggiore ricerca di armonia e di distensione che nasceva anche dalla nuova adesione al gusto neoclassico e che si riflette nelle correzioni apportate dal poeta nei primi due stessi poemetti.

Crescono nei due nuovi poemetti del Giorno un’eleganza e un gusto piú disteso e armonico che smussa – pur non eliminandone il riferimento ai suoi valori di umanità e di nobiltà spirituale – le punte piú accese e i colori piú densi della sua satira. E questa, specie nella Notte, si apre piú sicuramente a vaste scene d’insieme, a quadri ironici e attediati di gruppi di nobili ottusi e frivoli, di individui spettrali e ridicoli, assorti nei loro stupidi scherzi e nella loro frivola socievolezza, mentre il disegno di alcune scenette (come quella dell’attacco isterico di una damina o quella dell’incontro di due «fervide amiche» che sotto l’accelerarsi rabbioso del movimento dei loro ventagli si accendono di reciproca ira pur nell’aggraziata misura del loro costume di ipocrita convenienza) si fa piú sottile e poi pacatamente ironico e sorridente, perdendo in parte la densità piú colorita ed elastica delle prime due parti del Giorno e acquistando una piú ariosa e compiaciuta eleganza.

5. L’ultimo Parini e le odi neoclassiche

Il nuovo tono poetico che può avvertirsi nelle ultime due parti del Giorno (e che non perciò deve considerarsi come un cambiamento totale e improvviso, né come decadenza della poesia e degli ideali illuministici-riformistici del Parini, ma come il frutto di un lento sviluppo di animo e di gusto) si chiarisce ancor meglio nelle sue ragioni e nella sua natura, se ci si riporta allo sviluppo delle Odi piú tarde in cui la carica didascalico-combattiva diminuisce (e non perciò si perde interamente) a favore di una visione piú serena e armoniosa, di un didascalismo in cui i termini dell’“utile” e del “dolce” sembrano piuttosto cambiarsi in quelli del “vero”, del “buono” e del “bello”, e la figura del poeta illuministico ed educatore sembra prospettarsi in forme di piú equilibrata e superiore saggezza, in relazione alla persuasione pariniana di una relativa avvenuta conquista di condizioni piú civili e umane nella società milanese, di una iniziale vittoria del moto riformatore, di una avvenuta riforma di molti di quegli stessi nobili educati da lui. Ed è cosí che il Parini può accogliere nel proprio gusto le sollecitazioni del neoclassicismo teorico e figurativo (in un’epoca in cui egli a Brera frequenta pittori, scultori, architetti neoclassici) nella tensione ad una bellezza nobile e calma, ad una tranquilla e serena nobiltà spirituale ed estetica, a una semplicità solenne e lineare e a quell’ideale di «bontà e bellezza», con cui il poeta intimamente consonava in una maturata visione di affetti eletti e pacati, confortata appunto dalle nuove istanze neoclassiche a cui (si ricordi) egli si ispirò in certi progetti (intorno all’80) da lui scritti per teloni di teatri o per decorazioni di palazzi.

Sempre centralmente ispirato da un ideale civile e dalla figura del “buon cittadino” dignitoso e non servile né orgoglioso, quale si realizza nella severa e alta ode autobiografica La caduta (tutta fondata sul sentimento coerente della propria dignità personale e del proprio servizio al bene della collettività), e sempre fedele al suo persuaso illuminismo riformatore, gradualistico, moderato, timoroso di riforme troppo brusche e avventate (come può ben dimostrare l’ode La tempesta, dell’86, che esprime chiari dissensi di fronte alle precipitose riforme di Giuseppe II), il Parini piú tardo si muove verso un tipo di poesia piú serena e armonica, piú affermativa dei valori di alta moralità, di alta convivenza civile che non direttamente polemica e satirica, anche se, quando occorre, essa non mancherà di reagire con ferma forza ad ogni accenno di deviazione dall’ideale della bontà fraterna e umanitaria: si pensi all’ode A Silvia o del vestire alla ghigliottina del ’95, che severamente dimostra le cause e il progresso della corruzione delle donne romane nel periodo imperiale e teme un simile processo nel germe apparentemente innocuo della moda femminile di un nastro rosso alla gola, allusivo al taglio sanguinoso della ghigliottina francese.

La poesia delle odi piú tarde (già dalla Laurea del ’77, su su fino alle grandi odi finali, Il messaggio del ’93, A Silvia, già ricordata, Alla Musa del ’95-96) è ben lungi dunque da una direzione di decadenza e di isterilimento umano, civile e poetico, e anzi in essa vengono crescendo insieme una specie di alta saggezza umana, una persuasa affermazione e celebrazione dei valori vitali e ideali di una civiltà matura ed eletta, una capacità stilistica e poetica piú ariosa e profonda, una musica piú intimamente suggestiva che richiedeva (secondo quanto il Parini diceva nell’ode La recita dei versi) una speciale condizione etico-estetica per essere esercitata e gustata:

Orecchio ama placato

la Musa e mente arguta e cor gentile.

Una condizione che perciò rifiutava gli eccessi sentimentali, la tetra malinconia della poesia preromantica, quale scendeva in Italia dai paesi del Nord, come il Parini chiaramente afferma nell’ode La gratitudine, che invece esortava i giovani a quei «limpidi di Grecia rivi», a quei modelli di classica saggezza e di perfezione formale che egli sempre piú ammirava nella sua adesione al neoclassicismo.

Ma, se il neoclassicismo poteva (specie nelle arti figurative) portare a forme troppo frigide e accademiche e a un calco ripetitorio e velleitario delle antiche forme della bellezza greca, lo speciale neoclassicismo pariniano – sempre alimentato da una sensibilità alacre e viva e da una spiritualità saggia e pacata, ma mai fredda e irrigidita, e dalla persuasa forza di ideali illuministici mai rifiutati – poteva ben tradursi in una poesia luminosa e nitida, capace di realizzare anche una superiore forma di gentile galanteria, di soave culto e affetto per immagini di femminile bellezza. Come avviene nelle odi Il pericolo o Il dono e piú altamente nel capolavoro del Messaggio del 1793 che riassorbe un elemento di amorosa galanteria (esercitata dal Parini in molti minori componimenti piú scherzosi e sorridenti che sono pur degni di viva attenzione) in una piú alta rappresentazione della propria vocazione al «grato della beltà spettacolo», del proprio senile e ironizzato vagheggiamento amoroso per l’«inclita Nice» (la contessa Maria di Castelbarco), delle belle forme di questa, evocate in un’immagine delicata e tenera, e, infine – con una suprema grazia fra tenue malinconia e sorriso pacato –, della prefigurazione della propria prossima morte e del rinnovato rapporto fra la giovane donna e le ceneri del poeta ancora scosse al suo passaggio da una misteriosa commozione amorosa.

Ma piú centralmente l’ultima poesia pariniana troverà la sua suprema espressione nell’ode Alla Musa, alta sintesi degli ideali pariniani nella loro piú tarda configurazione, e rivelazione concreta della estrema finezza e della impalpabile leggerezza di una fantasia pura e limpida, tradotta in un ritmo delicato e saldo, in una musicalità lirica, lenta e pausata, in immagini luminose e trasparenti.

In quell’ode il Parini riprende le direzioni piú profonde della sua autobiografia, della sua vita spesa per la poesia e per l’educazione di una civiltà eletta e umana, della sua stessa concezione della poesia che «cerca il vero e il bello ama innocente» e a cui non inutilmente si è dedicato il suo allievo aristocratico, Febo D’Adda, che associa ad essa i suoi teneri doveri di giovane sposo ed è ormai cosí lontano dal figurino ridicolo e ripugnante del «giovin signore» del Giorno.